L’uomo da sempre è stato costretto a confrontarsi con le epidemie, con qualcosa di terribile e oscuro che ha minacciato o compromesso il suo equilibrio ponendolo davanti all’ignoto e all’impotenza, giungendo persino a mettere in discussione la sua stessa sopravvivenza. E a questa realtà sin dall’antichità si è attribuita una volontà divina, almeno fino a quando, a partire dal settecento, non si comprese che a causare il flagello non era Dio ma la diffusione di microbi, “piccole vite” visibili solo con il microscopio. Tuttavia, ancora oggi, in tempi d coronavirus, si sente qualcuno sostenere che l’epidemia, pur non negando la causa naturale del contagio, deve essere mandata da Dio per espiare i peccati dell’uomo.

Ripercorrendo la storia della letteratura ci si accorge di come le epidemie siano un tema ricorrente. E tra queste quella che più è stata raccontata è la peste. Forse non solo perché è quella che più è rimasta impressa nella memoria della gente per le proporzioni letali delle sue conseguenze (basti pensare che la cd. “spagnola” del 1917-1920 fece 50/100 milioni di vittime) ma anche e soprattutto perché un tempo non si avevano le conoscenze sufficienti per distinguere la peste da altre malattie infettive e quindi spesso capitava di considerare peste quella che in realtà non lo era.

Di epidemie s’inizia a parlare addirittura nella Bibbia. Infatti in questo testo sacro si racconta di una pestilenza mandata da Dio ai tempi di Mosè che uccise decine di migliaia di persone ebree.

Anche i greci si occuparono delle epidemie tanto che vi era un Dio, Apollo, addetto a lanciare le frecce della pestilenza. Nell’Iliade l’epidemia, infatti, è provocata proprio da Apollo, il quale si era adirato con gli Achei accampati sotto Troia, per l’oltraggio arrecato da Agamennone a un suo sacerdote. Il dio agisce direttamente con le sue micidiali frecce, colpendo prima gli animali e poi gli uomini, provocando una sofferenza e morte.

Con un’altra pestilenza si apre una delle più famose e inquietanti tragedie greche, L’Edipo Re di Sofocle, dove il flagello viene imputato dall’oracolo delfico di Apollo all’uccisione di Laio, il precedente re di Tebe, perpetrata da suo figlio Edipo, seppure inconsapevolmente. Tale misfatto ha causato una contaminazione dell’intera città, che necessita di una purificazione attraverso la morte del contaminatore, cioè di Edipo, che possiamo considerare come un antesignano della figura di untore che sempre più nel tempo si affermerà come capro espiatorio delle epidemie.

Un accenno va fatto anche all’opera di Tucidide, primo storico dell’antichità e contemporaneo di Sofocle, NellaGuerra del Peloponneso, ci dà il primo grande e particolareggiato affresco di una epidemia storica. La descrizione è impressionante per precisione terminologica e clinica e ciò potè fare anche avvalendosi delle ricerche della scuola ippocratica ai suoi esordi, sicuramente già influente ad Atene nel periodo della guerra.

Non sono stupefacenti le analogie, a vari livelli, con la vicenda epidemica che noi stiamo vivendo, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo? Un altro aspetto che il grande storico mette in evidenza, e che diverrà un elemento ricorrente nelle successive descrizioni letterarie del fenomeno, fino alle attestazioni più recenti (Jack London in “La peste scarlatta”, Josè Saramago in “Cecità”) è l’annullamento dei freni inibitori e lo scardinamento delle strutture familiari, sociali e politiche, che il dilagare del male produce, con un arretramento degli uomini a uno stadio pre-civile: “L’epidemia diede il segnale al dilagare della scostumatezza in Atene. Gli istinti, prima compressi, si sfrenarono dinanzi allo spettacolo dei rapidi cambiamenti: ricchi che erano subito morti, nullatenenti a un tratto diventati ereditieri. La vita e il denaro avevano agli occhi della gente lo stesso vile valore: si voleva godere, in fretta, materialmente… Nessun timore divino, nessuna legge umana li tratteneva. Empietà o religione erano la stessa cosa per chi vedeva che tutti ugualmente perivano. E quanto al castigo giuridico delle colpe, nessuno si attendeva di viver tanto da doverlo scontare: ben più tremenda sentenza pesava ormai sul loro capo”. Si noti anche l’acuta analisi psico-sociologica presente in queste ultime considerazioni.

Saranno poi gli scrittori latini a scrivere pagine dedicate alle pestilenze. Lucrezio, nel suo De rerum natura ricorda la peste di Atene del 430 avanti Cristo, raccontata dallo storico Tucidide nel suo libro La guerra del Peloponneso, durante la quale morì Pericle, il politico dell’età dell’oro che inventò la democrazia. Anche Virgilio, nel libro delle Georgiche, descrive di una pestilenza che colpì il Norico, l’attuale Austria. Una specie di sintesi tra Lucrezio e Virgilio, con vari spunti originali, viene realizzata da Ovidio il quale nelle Metamorfosi ricontestualizza la descrizione della peste. Di nuovo, come in Omero, l’origine del morbo viene fatta risalire alla divinità e solo con l’intervento di un’altra altra Dea si realizza il ripopolamento dell’isola greca tramite la trasformazione di un esercito di formiche in giovani guerrieri.

Un altro grande autore latino che si cimenta con la peste è Seneca. Con il suo Oedipus (chenaturalmente nutrite e chiare differenze con quello di Sofocle) terminano le dediche degli scrittori classici all’antico tema della peste che avevo racchiuso un periodo di circa un millennio.

E seppure di epidemie nel primo millennio dopo Cristo, ce ne furono tante e alcune anche devastanti come la peste di Costantinopoli, forse per saturazione, nessuno letterato sentì il bisogno di scrivere approfonditamente su questo tema che invece avrà una rifioritura nel tardo medioevo e nella letteratura italiana, dal Boccaccio in poi.

In particolare, si riprende nel XIV secolo, quando si abbatte una nuova epidemia di peste che mette l’Europa in ginocchio.  Boccaccio nel Decamerone, racconta un momento di questa peste, e cioè quella abbattutasi su Firenze nel 1348. E lo fa attraverso la voce di un gruppo misto di nobili giovani che decidono di rifugiarsi in una villa di campagna dovesi raccontano storie e giornate di peste.

Nei secoli seguenti le epidemie furono ricorrenti e riguardano soprattutto sempre l’Europa la cui popolazione venne decimata. Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe, scrisse il Diario dell’anno della peste. Il libro rievoca l’epidemia che colpì Londra nel 1665 di cui l’autore era stato testimone da bambino.

Ma a lasciarci un grande ritratto della pestilenza di quel tempo fu soprattutto Alessandro Manzoni nel suo celebre romanzo, I promessi sposi, pubblicato a metà ottocento, in cui la peste del 1630, diffusasi in buona parte d’Italia ma che colpì drammaticamente il Ducato di Milano, fa da sfondo alla tormentata vicenda di Renzo e Lucia.

Ma vi sono anche alcuni racconti profetici o fantastici sulle epidemie. Ad esempio, una pestilenza immaginaria è descritta da  Edgar Allan Poe  nel racconto  La maschera della morte rossa,  pubblicato nel 1842, ambientato  in un paese imprecisato e in un tempo lontano e indefinito, in una vecchia magione dagli interni cupi, dominati dai colori nero e rosso. Il racconto è percorso da un senso di smarrimento e di angoscia di fronte a un elemento naturale ritenuto invincibile, “la Morte Rossa”. In questa storia densa di allusioni simboliche e di elementi tipici del racconto dell’orrore, Poe riprende l’idea della peste come simbolo di devastazione e di lotta tra la vita e la morte; un’idea ancora molto presente nell’immaginario collettivo ottocentesco dopo le tante devastanti vicende dei secoli precedenti.

Un altro esempio è quello di Mary Shelley, l’autrice di Frankestein, nel romanzo apocalittico L’ultimo uomo, del 1826, quindi un po’ prima che Manzoni pubblicasse I promessi sposi. Nel suo libro immagina la fine dell’umanità nel ventunesimo secolo a causa della peste, profetizzata in una serie di scritti ritrovata in una grotta vicino Napoli. E qui ci troviamo davvero di fronte ad un monito letterario su quello che sarebbe successo ai nostri giorni…

Ma, indubbiamente, una delle opere più importanti dedicate alle epidemie è La peste di Albert Camus, pubblicata nel 1947, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il libro del premio Nobel francese, racconta di un’epidemia che esordisce attraverso una morìa di topi, e si diffonde in tutta la città algerina di Orano. Il celebre romanzo, che in tempo di coronavirus è ritornato di moda tanto da avere scalato tutte le classifiche di vendita europee, non solo rappresenta un affresco sull’umanità e le sue illusorie speranze, ma anche un monito contro il nazifascismo che aveva incarnato la peste e ne costituiva il male da debellare.

Venendo ai nostri giorni, accennare, Cent’anni di solitudine, laddove Gabriel Garcìa Marquez ad un certo punto del suo capolavoro racconta la “peste dell’insonnia” scoppiata nel villaggio immaginario di Macondo. Attraverso le vicende della secolare famiglia dei Buendìa, lo scrittore columbiano descrive come le persone colpite dal morbo dell’insonnia perdano la memoria ed entrino in uno stato confusionale che impedisce ogni forma di comunicazione umana.

Infine, un altro libro, a cui non si può non accennare é il fantastico Cecità di José Saramago, altro premio Nobel per la letteratura, che, per gli aspetti concernenti il tema dell’epidemia, può essere accostato a Cent’anni di solitudine. Con questo racconto pubblicato nel 1995, l’autore portoghese narra di un uomo fermo al semaforo, alla guida della sua auto, che improvvisamente perde la vista e inizia contagiare gli altri. La particolarità di questa epidemia non sta solo nel fatto che stranamente colpisce gli occhi ma anche nella circostanza che toglie l’identità, innescando paura e barbarie e facendoli regredire le persone ad uno stadio primitivo in cui i valori umani saltano uno dopo l’altro. Anche per Saramago, come per Camus, vi è una forte morale nell’opera: denunciare l’incapacità dell’uomo di vedere gli aspetti disumani e insostenibili verso cui sta dirigendo lo sviluppo sociale che inevitabilmente lo porterà alla dissoluzione.

Salvatore De Siena

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